Home Attualità Addio Pino, anima blues sotto il Vesuvio

Addio Pino, anima blues sotto il Vesuvio

Di Gianluca Castagna  – Oggi c’è troppo silenzio su questa terra. Il cuore malandrino di Pino Daniele si è fermato, chiudendo un’avventura artistica tra le più entusiasmati e feconde della canzone italiana. Una voce, quella del cantautore nato a Napoli 59 anni fa (ne avrebbe compiuti 60 a marzo) che, pur partendo da una città violentemente viva e appesantita da milioni di immagini, suoni, stratificazioni e sedimentazioni, si è imposta, sin dall’esordio, come formidabile strumento di crescita ed emancipazione. Finendo per superare la sua stessa storia, e quel dolore, intimo e profondo, che marchia a fuoco tutti coloro che vengono fuori da un contesto di malessere e inquietudine. Una voglia di riscatto, certo tutta napoletana, sancita per sempre in una canzone, “Voglio di più”, tratta  dal suo capolavoro blues “Nero a metà”. Una canzone che, dopo 30 anni, suona ancora così irriducibile nella sua bellezza e così inconsolabile nel suo amarissimo dolore.

PinoPino Daniele è stato l’uomo della dialettica tra due grandissime tradizioni, e la sua musica una sintesi, forse irripetibile, tra il folk napoletano (nelle armonie, nelle melodie, nella struggente ironia di certi testi) e il blues (in particolar modo nella struttura ritmica e nella tecnica strumentale). Una carriera lunghissima, fatta di alti e bassi com’è giusto che sia, ma grazie alla quale la musica popolare è rimasta viva, si è evoluta, non rinunciando del tutto alle sue migliori ambizioni. Quel misto di tradizione partenopea e idiomi musicali d’oltreoceano, immortalati in dischi che raccontano un tempo e una terra che, lacerata dalla più sanguinosa guerra di camorra mai conosciuta e dal rafforzarsi di atavici drammi sociali, tentava tra la fine degli anni ’70 e gli albori del decennio successivo, di lasciarsi alle spalle la cecità della “cartolina” per affacciarsi alla modernità industriale, economica e sociale mai rinunciando – anzi, ribadendone – peculiarità e famigerata ecletticità. Un esperimento destinato a fallire, come oggi siamo costretti ad ammettere.
Eppure Pino, con le sue canzoni che hanno segnato gli anni di un’intera generazione di giovani, è stato uno di quei fenomeni aggreganti positivi della Napoli moderna. Una metropoli angosciata, a gambe aperte, ferita (a morte?) dall’ennesimo terremoto, custode di un’anima profonda, inafferrabile, o di quella filosofia di vita, così creativa, nella quale il napoletano ha spesso individuato l’unica strada per mettersi in pari col mondo e con i miti occidentali della contemporaneità. Ora Masaniello, ora ladro, ora spinellaro, ora “buono guaglione”, ora pazzo. Tutte figure a loro modo radicali che agitano le prime canzoni di Pino Daniele e  rendono viva e palpitante una città fatta di “mille culure e mille paure”, “’na carta sporca, e nisciuno se ne ‘mporta”, come canterà, con quella voce così imperfetta, eppure così vera nella sua naturalezza, in una delle canzoni più belle e amate del suo repertorio.

Dopo l’album “Scio’”, straordinaria testimonianza delle lunghe e applauditissime tournèe di quegli anni (che toccarono anche Ischia, nell’estate del 1982, un concerto indimenticabile allo Stadio Rispoli, stracolmo all’inverosimile), le storie dell’artista napoletano diventano quasi una cassa di risonanza per suoni, atmosfere e culture diverse, dove la musica rimane sospesa in un luogo indefinito tra il Mediterraneo e l’Atlantico, per realizzare quella “fusion” che Pino aveva visto nascere sotto i suoi stessi occhi, quasi al di là della sua volontà. Un’esplorazione che disorienterà i suoi vecchi fan, perché nasceranno dischi di complicate alchimie ritmiche, di vertigini non immediate o di concessioni troppo generose alla facile pop music. La strappo soprattutto fisico con la città è una lacerazione che non si rimarginerà più.
La sua vibrante sincerità e la vocazione strepitosa alla melodia si piegheranno tutte al servizio delle problematiche d’amore. In totale coerenza con la libertà di un artista di inseguire fino in fondo solo i propri sogni, Pino Daniele aveva deciso di non soffrire più. Non sapeva più farlo. O forse, più semplicemente, non gli andava più.

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