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INTERSTELLAR, ODISSEA TRA LE STELLE

Di Gianluca Castagna –  La prima volta che abbiamo messo piede sulla Luna è stato il 1902. Propellenti utilizzati: due racconti (di Jules Verne e Herbert George Wells) rimescolati insieme dalla fantasia di un autentico poeta, Georges Meliès. Che tenerezza, oggi, rivedere “Il Viaggo nella Luna”, quando tutto il cinema degli esordi poteva volare senza preoccuparsi minimamente di essere credibile: astronauti che volteggiano tra le stelle con tuta e ombrello, razzi sparati nell’occhio del nostro satellite più romantico e menzognero, alieni variopinti come acrobati delle Folies-Bergère. Oggi tutto è cambiato. Ma l’avventura verso l’ignoto, forse per scrutare il destino stesso dell’umanità, non ha smesso di appassionare i grandi narratori e pensatori del nostro tempo.

Foto 2Interstellar, ultimo attesissimo film di Christopher Nolan, ha un padre putativo ingombrante, di quelli che fanno tremare i polsi: l’Odissea di Kubrick. Il film che cambiò per sempre il cinema di fantascienza, poichè lo spazio divenne  enigmatico e il viaggio metafisico, l’astronauta non più (solo) un pioniere/avventuriero ma sofisticato indagatore dell’universo e dell’animo umano.
Siamo esploratori o guardiani? Abbiamo ancora voglia di scoprire nuovi mondi, lasciare le nostre certezze per esplorare l’ignoto? Cosa siamo disposti a sacrificare, della nostra vita, per avventurarci nella spaventosa solitudine dello spazio e cercare una risposta alla sopravvivenza della specie? Perché la luna, i pianeti, le galassie e il fatale buco nero sono lì, indifferenti e misteriosi, ad aspettarci. Lontani fino a trasformare il rumore in un ronzio. Poi, il silenzio.

La Terra è (quasi) morta. Non c’è più cibo. Non esistono più eserciti, e nemmeno nazioni. Anche Cooper (Matthew McConaughey), ex-ingegnere NASA, ha dovuto rinunciare a tutto per tenere in piedi un difficile mènage familiar-agreste dopo la scomparsa della moglie. Come se già non bastassero le ondate d’arida sabbia ad affliggere il pianeta e i polmoni dei suoi abitanti. Le scorte stanno finendo, non c’è altra scelta che abbracciare il teorema dell’accademico Michael Caine: l’umanità è nata sulla Terra ma non è destinata a morirci. Lasciarsi qualcosa alle spalle è l’unico modo per andare avanti. Ma che fatica, che strazio.
Grazie al viaggio interstellare, sfruttando i wormhole (curvature dello spazio-tempo situate – pare – dalle parti di Saturno), è infatti possibile andare a cercare pianeti abitabili in altre galassie, e trovare così una nuova casa per la nostra specie.
Foto 3Sin dall’inizio, il film di Nolan pone l’accento su concetti solo apparentemente “astratti” (l’ignoto, l’apocalisse, la relatività, il tempo, la prefigurazione di nuovi mondi/soluzioni), ma con uno stile e un’esigenza di raccontare ossessioni terribilmente umane. L’abbandono, anzitutto. L’uomo è un essere unico scaraventato in dimensioni che appaiono lontanissime e che invece sono laceranti sommovimenti interiori. Tanto più Cooper si allontana (bellissima la sequenza dell’addio alla figlia Murph), più la sua profonda umanità emerge dalla gelida visione scientifica della missione, dal senso di geometrica quadratura che Nolan impone alle sue opere (qui assicurata dalla circolarità dell’impresa).
E se i duetti con l’astrofisica Amelia (Anne Hathaway), che invece scalpita per partire, toccano il nervo scoperto del racconto (ragione o sentimento? cuore o scienza?), a noi spettatori non resta che arrenderci alle ossessioni oniriche del regista, e alla durata fiume di un film, meraviglioso e incompiuto, ricco di sequenze capaci di lasciare a bocca aperta per bellezza e perfezione. Piani ravvicinati, soggettive, camera a mano: l’empatia, il calore, forse anche un certo rimpianto, entrano a gamba tesa nel cinema cerebrale, e fin troppo espositivo, di Nolan. Lo fanno partendo e attraversando i confini della scienza, da sempre la più agnostica delle discipline, la più scettica ed empirica.
Interstellar è un film sulla perseveranza, sul credere nella salvezza dell’umanità come atto dovuto dell’uomo, come spinta interiore che ci riporta tutti in una fantascienza concettuale e corporea, che riflette e respira, si entusiasma e si avvelena (come Jessica Chastain/Ellen Burstyn, ormai più “vecchie” del padre). Fuori dai giochetti apparentemente innocenti di tanto cinema contemporaneo che strizza l’occhio ai teenager, i padroni del botteghino.

Al netto delle imperfezioni (non poche: seriosità, niente humor o divertimento, spiegoni scientifici irritanti, ondate di musica d’organo che soffocano la visione come una lava assassina, finale mosciarello), il primo grande film internazionale della stagione si prende dei rischi enormi, puntando sull’amore di un padre per sua figlia e sul bisogno viscerale di ricongiungimento come elementi capaci di trafiggere le dimensioni dell’ignoto, superare la vertigine degli spazi e comunicare attraverso il tempo. La visione ideale pretende poca dimestichezza coi buchi neri e i buchi di sceneggiatura. E’ un’ Odissea tra le stelle da vivere senza il cinismo maniacale degli astrofisici (o dei quaresimali farmacisti della critica).

 

 

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