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Leonardo Di Costanzo: “Così racconto la Grande Guerra”

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Gianluca Castagna | Ischia – Sono stati tre giorni di cinema e incontri, seguiti da un folto pubblico interessato e partecipe. All’edizione 2014 della scuola di storia e critica cinematografica a cura del Circolo Sadoul, un protagonista d’eccezione: Leonardo Di Costanzo. Tra i documentaristi più apprezzati d’Europa, il regista isolano ha raccontato la sua esperienza professionale e i suoi film, in bilico tra documentario e cinema di finzione, ma con lo sguardo sempre alla ricerca di un modo nuovo per afferrare la realtà e rappresentarla sul grande schermo. Di Costanzo è reduce dal Festival di Cannes, dove è stato presentato “I ponti di Sarajevo”, opera corale che parte dalla capitale bosniaca per scoprire i mali del “secolo breve”.
Poche settimane fa, a Cannes, “L’avamposto”, uno dei tredici episodi del film collettivo “I ponti di Sarajevo”. Com’è nata la partecipazione a questo progetto?
«L’iniziativa è partita da Jean Michel Frodon, che ha un rapporto molto stretto con Sarajevo. Tutto il progetto è una metafora, un simbolo: pensiamo a Sarajevo come la città della convivenza, un luogo vitale, vivace, di condivisione, dove hanno sempre coabitato etnie e religioni diverse. Poi, per uno strano gioco della storia, è diventata la città teatro dell’avvenimento che portò alla Grande Guerra o il centro del conflitto balcanico con cui si chiude il Novecento. Tutti i registi coinvolti nel progetto hanno un modo molto personale di raccontare le storie al cinema, e sono stati scelti per aver vinto, in carriera, almeno un premio nei tre festival europei più importanti: Cannes, Venezia, Berlino. Quando me l’hanno chiesto, ho subito accettato con entusiasmo malgrado non conoscessi Sarajevo. La libertà di scegliere cosa e come raccontarla è stato uno stimolo in più».
L'avampostobis“L’avamposto” è la rilettura del racconto di De Roberto “La paura” ambientato durante la prima guerra mondiale? Cosa ha deciso di privilegiare in soli otto minuti a disposizione?
«Nel racconto di De Roberto la paura è al centro del racconto. Soldati semplici che, da massa anonima e indistinta, diventano individui attraverso il sentimento umanissimo della paura. Chi si fa confessare, chi si raccomanda di consegnare i corpi ai familiari. Purtroppo era impossibile raccontare tutto, quindi ho individuato nella figura del tenente, schiacciato da due logiche (dei superiori e dei soldati), il centro della mia narrazione»
“L’avamposto” è stato girato in una grotta, spazio ideale per la metafora e l’astrazione.
 «Un gioco tra il dentro e fuori, l’ombra e la luce. Pensare di andare verso la luce e trovare invece la morte. L’idea di ambientare la storia in uno spazio chiuso, isolato, circoscritto, rispondeva soprattutto alla esigenza di rendere il racconto poco realista, meno ancorato alla realtà».
L'avamposto 1bisLe scuole delle periferie metropolitane come arene di combattimento in “A scuola”; il comune di Ercolano, trincea per il sindaco Luisa Bossa nel documentario “Prove di Stato”; l’ex ospedale psichiatrico Bianchi, il luogo dove Salvatore e Veronica vivono la loro giornata particolare ne “L’intervallo”. I luoghi dell’azione diventano personaggi in piena regola.
« Sono fondamentali. Nel momento in cui devo inventarmi delle storie, se non ci riesco, è perché non ho ancora capito dove questa storia deve accadere. Non posso conoscerne in anticipo il senso, ma mi serve stare lì dove le cose accadono. La realtà è molto ricca, facilmente ti può sopraffare, o ti sfugge, quindi sei costretto in qualche modo a organizzarla, a scegliere».
“A scuola”, “Cadenza d’inganno”, “L’intervallo”. Tre tappe cruciali della sua indagine sul reale e i modi di raccontare. A che punto è questa ricerca?
« Più che un’indagine, io sono affascinato dal reale. Cerco sempre di intercettarlo in tutti i modi. Posizionarmi a distanze diverse per cogliere l’enorme potenzialità narrativa. La finzione, il documentario, sono tutti strumenti per intercettare il racconto della vita di tutti i giorni, per trovare il posto migliore dove mettermi e catturare meglio la potenza narrativa del reale. E’ come andare a caccia: un esercizio di posizione, più che un esercizio di stile»
Ci sarà ancora Napoli, e l’umanità catturata nell’età di mezzo, dentro lo sguardo futuro di Leonardo Di Costanzo?
«L’età di mezzo non credo, a meno che non sbuchi fuori all’improvviso. Napoli continua a essere una grossa insidia per ogni cineasta; inizialmente volevo andarmene, trovare altre realtà da raccontare, ma faccio fatica a parlare, che so, di Ascoli Piceno. Nel prossimo film che sto scrivendo con Maurizio Braucci, la città di Napoli sarà molto presente, quindi ci sto mettendo molto tempo. Però le sfide sono belle anche per questo: è la realtà che vivo e conosco, quella che mi interessa raccontare. Meglio prenderla di petto».

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